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L’altra faccia del permitting. Quando le aziende ignorano le regole base della democrazia (e del vivere civile)
di Mattia Fadda
La Regione Sardegna ha un assessore all’ambiente, Gianni Lampis, che a 33 anni ha già alle spalle un quinquennio come consigliere regionale. In tandem con la collega Anita Pili, che si occupa delle tematiche energetiche, Lampis coordina anche la Commissione Ambiente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Le politiche ambientali in ambito regionale non vogliono dire solo tutela e difesa dei beni ambientali ma anche valutazioni ambientali e autorizzazioni ai nuovi impianti. Abbiamo chiesto all’assessore il consenso di derogare alla Chatham House rule che regolava un recente evento a porte chiuse cui ha partecipato – momento promosso da Public Affairs Advisors e Elemens in seno al progetto R.E.Gions2030 – per citare le sue parole e trarne così lo spunto per una riflessione. In occasione dell’evento, discutendo delle istanze autorizzative per impianti di produzione di energie rinnovabili nella sua regione, Gianni Lampis ha detto: “succede poi, addirittura, che alcuni investitori presentino istanza per progetti importanti senza mai essersi neanche presentati negli uffici regionali, senza sapere chi siano. C’è stata addirittura una richiesta per un impianto potenzialmente davvero molto impattante sulla nostra costa, la costa sarda, con tutto quello che significa, fatta da una società i cui manager non si sono neanche prima presentanti. Sconosciuti…”.
Come puoi ambire a veder soddisfatta la tua legittima (poiché legale) aspettativa autorizzativa se sei una società completamente sconosciuta alle istituzioni con potestà autorizzativa sul tuo progetto? Questa è la domanda che come consulenti per i rapporti istituzionali locali e la comunicazione rivolgiamo frequentemente ad imprese con cui talvolta veniamo in contatto. Quelle stesse imprese che spesso ti cercano quando (quasi) tutti i buoi sono ormai scappati dal recinto.
Certo, ci sono delle norme che regolano il processo autorizzativo, c’è la conferenza dei servizi in cui dovrai poi vederti in faccia con i titolari degli uffici, c’è la documentazione preliminare che contempla tutte le informazioni societarie e del legale rappresentante. Qui non si discute delle procedure. Si discute, invece, di un aspetto che nel nostro ordinamento è non meno importante delle procedure e altrettanto riconosciuto, ovvero il consenso. Quello iato, ahinoi non sempre sufficientemente evidente, tra un iter buro-cratico e un percorso demo-cratico. Che si traduce nell’infondata aspettativa da parte del proponente di ottenere, all’interno di una procedura giurdicamente tutelata in seno ad una democrazia costituzionale, un titolo autorizzativo senza aver prima (e durante) dialogato sia con gli uffici che con la parte politica che regge pro tempore l’istituzione che dovrà infine firmare il titolo necessario a posare la prima pietra.
Si discute, perciò, del diffuso abbaglio legalistico-procedurale (ne esiste poi uno tecnico-ingegneristico) per cui se una cosa è prevista dalle norme dovrà, prima o poi, compiersi così come stabilito. Se non dovesse invece compiersi per come previsto dalle norme (o indicato dalla giurisprudenza) la soluzione sarà da trovare in seno ai tribunali amministrativi.
Non credo che si debba addossare la responsabilità dell’abbaglio legalistico-procedurale agli avvocati, che spesso, bravissimi, risolvono i problemi e rianimano progetti nati sani ma finiti esanimi. Credo che il problema sia invece concettuale e manageriale. Manageriale perché legato alla scelta di sottoinvestire nella comunicazione, nella reputazione aziendale e nella relazione con gli stakeholders. Esistono (è vero, credetemi, è accaduto, parafrasando Domenico Modugno) società che oggi, nell’era digitale, vogliono realizzare biodigestori senza avere neanche una pagina web su cui il cittadino, l’assessore comunale o il tecnico regionale naturalmente (e come prima cosa) possano recarsi per verificare chi abbiano davanti.
Poi il problema concettuale, il più difficile da superare perché non si risolve applicando risorse. I vertici politici pro tempore delle istituzioni con potestà autorizzativa sono, per sommi capi, ispirati da due scopi. Da una parte quello riferibile al mandato ricevuto: raggiungere cioè gli obiettivi politici (legislativi ed esecutivi) fissati in conformità alle norme vigenti e alle prassi. Dall’altra lo scopo politico: mantenere o, nel caso, accrescere il consenso da cui deriva (e verrà poi, nel caso, confermato) il mandato ricevuto.
Concettualmente, perciò, i vertici delle istituzioni che dovranno autorizzarti devono essere sempre ingaggiati, via via coinvolti e dunque pensati come soggetti politici attivi ispirati da entrambi gli scopi. Si deve perciò considerare tanto la questione giuridica formale – rendere gli obiettivi di business coerenti alle norme e alle prassi e funzionali agli obiettivi politici posti – quanto la questione del consenso – valutare a quali condizioni il mio progetto possa accrescere (o almeno non ridurre) il consenso politico degli attori che infine lo dovranno autorizzare.
Come consulenti ci impegniamo sempre a chiarire l’importanza di entrambe le “nature” delle questioni politiche alle aziende per cui lavoriamo, poiché non sempre l’esperienza e la capacità nella produzione di progetti di qualità portano anche alla comprensione di questa doppia anima del vertice istituzionale pro tempore che dovrà concedere loro l’autorizzazione e, di conseguenza, non prevedono attività che vadano nella direzione necessaria a rafforzare la propria proposta progettuale dal punto di vista del consenso.
Capita, infine, che alcuni capi azienda non considerino addirittura come indispensabile, in ode alle regole del vivere civile, mandare una mail all’assessore competente chiedendogli un appuntamento per presentarsi. Ma per questi non solo non c’è consulenza che tenga, non c’è proprio speranza.