Dalle Istituzioni, Governo, In Primo Piano, Parlamento
La lobby è sempre quella degli altri
Il dibattito sulle “lobby” si è riaffermato rumorosamente con l’appena concluso referendum sulle concessioni di idrocarburi offshore. Complice la politica, composta delle minoranze del Partito Democratico fino alle opposizioni di centrodestra e del Movimento 5 Stelle, complici i media, dai giornali mainstream come il Corriere fino al Fatto Quotidiano, la rappresentanza dei legittimi interessi della società è stata ancora una volta dipinta come il male italico per eccellenza. Accostata reiteratamente e in maniera subdola al concetto di corruzione e di traffico illecito di influenze (vedi voto di scambio, vedi mazzette per appalti), l’attività di lobbying assume una connotazione negativa e dare del “lobbista” passa oggi quasi per un insulto.
Interesse generale e bene comune: uno sguardo al passato
A monte un’idea un po’ naif e un po’ datata del “bene comune” e della rappresentanza politica nelle Istitutzioni, perfettamente in grado di conoscere i bisogni di tutta la società e quindi di governare uno Stato e i suoi concittadini. La realtà che si è effettivamente concretizzata in Italia, almeno dal ’45 in poi, è un po’ distante da quella visione idealizzata. Il sistema politico della Prima Repubblica ha avuto storicamente un assetto corporativo, caratterizzato dalla concertazione tripartita tra Governo, Sindacati dei lavoratori e Confindustria, funzionale per porre un freno alle spinte disgregatrici derivanti dalla forte segmentazione cultuale e ideologica della società. Gli accordi corporativi facevano il paio con gli accordi consociativi delle élite politiche per il mantenimento di larghe coalizioni di governo e l’espressione di scelte ampiamente condivise.
Dopo la grande espansione economica che ha interessato il nostro Paese però, il quadro internazionale è cambiato, è arrivata la recessione e il processo di globalizzazione (dei mercati finanziari, degli scambi commerciali e dei sistemi di comunicazione), i sindacati hanno perso potere contrattuale e base associativa, mentre gli imprenditori hanno acquisito maggiori libertà. Non esistono più le classici sociali per come tipicamente ce le ha raccontate la storia e il ceto medio si è polverizzato in migliaia di professionalità. I settori e i mercati sono altamente diversificati e sono cresciuti a dismisura rispetto a cinquant’anni fa.
Nel contesto economico moderno ci sentiamo quindi in buona compagnia se affermiamo, con Montesquieu e Adam Smith, che solo l’armonioso perseguimento degli interessi particolari costituisce la premessa per conseguire una qualche forma di interesse generale.
La lobby siamo noi
È quasi paradossale pensare che l’Italia degli individualisti, quella dei comuni e dei campanili, dei particolarismi e delle differenze sia restia a concepire l’esistenza di gruppi di interesse che esercitano influenza sui decisori pubblici per rappresentare posizioni che sono, lo ripetiamo ancora, legittime.
Sì perché la lobby non è solo quella dei perfidi petrolieri, dei magnati dell’industria chimica, o dei sostenitori degli OGM. La lobby è anche quella delle energie verdi, del WWF e di GreenPeace, passando per i sindacati tradizionali e di qualsivoglia associazione di categoria. Tutti quelli che sono organizzati per difendere un interesse sono una lobby. Il termine è assolutamente neutrale e dovrebbe godere di una sua dignità, perché ogni interesse dovrebbe avere una sua dignità e dovrebbe poter esser ascoltato dai nostri rappresentanti a qualsiasi livello istituzionale.
C’è però chi in Italia, per convenienza o per mentalità, non riesce ancora ad accettare i cambiamenti descritti in precedenza. Emblematico un recente articolo di Giuseppe De Rita, presidente del CENSIS, che dalle pagine del Corriere della Sera dipinge la rappresentanza di interessi come “gruppetti («quartierini») di un avventuroso lobbismo”. De Rita si allarma perché i mediatori tradizionali sono venuti meno, sacrificati a detta sua, sull’altare della rapidità decisionale e ciò non avrebbe per nulla giovato alla politica.
In una democrazia pluralista come la nostra però, sono gli stessi corpi intermedi descritti da De Rita ad aver perso la loro efficacia. Ed è la stessa politica che lentamente ma inevitabilmente inizia ad accorgersi che ascoltare i gruppi di interesse rende il quadro più chiaro per esprime al meglio le politiche pubbliche. I professionisti delle relazioni istituzionali sono in prima linea con le organizzazioni private profit e no profit per chiedere una legge organica sull’attività di lobbying che stabilisca regole chiare e maggior trasparenza. Al Parlamento e al Governo spetta ora decidere, questa volta per davvero.