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Immuni, la donna pugliese e la ragazza del mio amico
di Mattia Fadda
L’app Immuni è eccellente sotto ogni punto di vista ma non funzionerà, e non per limiti intrinseci. La proverbiale storiella dell’operazione perfettamente riuscita ma a seguito della quale il paziente muore è tanto macabra quanto, ahinoi, pertinente.
La software house Bending Spoons – da più parti incalzata in queste settimane – ha prodotto un ottimo strumento ma che forse arriva fuori tempo massimo. Sarà più utile, probabilmente, per affrontare quella seconda ondata che tutti auspichiamo non arrivi mai.
Ad oggi solo circa 3,5 milioni di Italiani l’hanno scaricata sui propri device (quanti per pura curiosità?) e solo il 16% degli italiani adulti dichiara che certamente la scaricherà (erano il 22% il 26 maggio). Secondo un sondaggio del 16 giugno realizzato da EMG Acqua per conto di Public Affairs Advisors (vedi Fig. 1), infatti, la percentuale di coloro che non intendono usufruirne tocca quota 45% (era il 40% appena tre settimane prima). Perché gli italiani non la stanno scaricando e, invece, aumenta anche la quota di coloro che pensano di non farlo? La prima ragione è quella che abbiamo citato: i contagi decrescono ad un ritmo costante, la paura del virus si sta via via affievolendo e con essa la percezione collettiva sui rischi. La seconda ragione è da ricercare nelle due storie che ora brevemente racconterò. Entrambe ruotano attorno al principale limite che sconta l’app del Governo. Privacy garantita ai massimi livelli, protocolli tecnologici fra i più avanzati ma inadeguata integrazione del sofisticato sistema di tracciamento elettronico dei contagi con il sistema di risposta al virus (testing and treating) messo a punto dai sistemi sanitari regionali.
La cronaca ha offerto la storia della signora di Bari, primo caso di contagio segnalato dall’app Immuni. La sessantatreenne in ottima salute ha ricevuto una notifica sul proprio smartphone, che l’avvisava di essere stata in contatto, forse presso lidi balneari, con una persona risultata positiva al Covid-19. Contattata l’Asl, alla diligente cittadina è giustamente stata prescritta una quarantena cautelativa di 14 giorni in attesa di un tampone che decretasse “inferno” o “paradiso”. L’app del Governo si trova ad avere una sorta di potere autoritativo per la tutela della salute pubblica assimilabile a quello di un medico di base: “sei sospetto Covid, rimani in casa e recati il giorno x all’ora y a fare il tampone. Fino al risultato ritieniti in isolamento domiciliare”. Per il solo fatto di aver installato un’app e di aver correttamente dato seguito alla notifica ricevuta informando le autorità sanitarie una donna si è vista confinare in casa per un tempo indeterminato. L’esito è stato poi negativo.
La seconda storia che voglio raccontare è quella capitata alla ragazza del mio amico. Nulla a che fare con la vecchia canzone dei Pooh. La ragazza vive a Milano col compagno e il figlio di pochi mesi, martedì 9 giugno accusa febbre a 38.5 e una brutta orticaria (che googlando si scopre essere correlato nel 19% dei casi al virus maledetto). La mattina successiva la ragazza del mio amico chiama il proprio medico curante che, con un’intervista telefonica (“non ti possiamo ricevere in ambulatorio con la febbre così alta”), stabilisce che i sintomi possano ricondurre a Covid-19. Dispone quindi che la donna debba ricevere la visita domiciliare da parte di un medico in forza alla task force di Regione Lombardia creata all’occorrenza per supportare i medici di famiglia in tempi di Covid. La visita giunge il venerdì pomeriggio (48 ore dai sintomi acuti) e decreta “serve un tampone, ne daremo comunicazione alle autorità sanitarie”. Arriva lunedì 15 giugno e ancora non si sa quando sarà fatto il tampone, poiché durante tutto il week end nessuno si è premurato di informare la paziente preoccupata. La ragazza chiama perciò nuovamente il suo medico curante per avere informazioni, che quindi ottiene: “ti confermo che ti chiameranno per il tampone”. Intanto già sabato 13 i sintomi scompaiono, forse anche per le terapie disposte dai medici specialisti consultati privatamente via telefono e video call. Arriva quindi la convocazione per il tampone: “vieni mercoledì 17 alle ore 9:30 risultati entro 72 ore lavorative”. Sfortuna vuole che le 72 ore lavorative scadrebbero il sabato 20 mattina e che il responso deve comunicarlo sempre il medico di famiglia. Insomma: la ragazza del mio amico viene a conoscenza del risultato del suo tampone il lunedì 22 giugno alle ore 15:35, dopo 12 giorni dall’insorgenza dei sintomi, 11 giorni dalla prima visita telefonica col medico curante, 9 dalla visita domiciliare del medico con lo scafandro, più di 5 giorni dal momento del tampone. La ragazza del mio amico è stata in isolamento cautelativo da potenziale infetta per 12 giorni, con il timore di aver infettato il figlio e il compagno e senza possibilità di lavorare ma con un riscontro fortunatamente negativo.
Insomma, se non si riesce a fare test in massimo in 48 ore nessuno si sentirà a proprio agio affidando la propria libertà ad un’app. Il mio amico e la sua ragazza hanno disinstallato Immuni.