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Il rapporto Draghi per la competitività europea: misure e previsioni
di Matteo Apicella
Lunedì 9 settembre Mario Draghi ha presentato un rapporto sulla crisi di competitività dei Paesi dell’Unione Europea, che gli era stato commissariato circa un anno fa dalla Commissione. Il documento si presenta come estremamente corposo e tocca vari settori del mercato europeo dall’alta tecnologia alla difesa, passando per l’industria dell’automotive, riuscendo anche ad offrire una visione più globale sulla necessità di una maggiore armonizzazione delle politiche tra gli Stati membri, accompagnata da uno snellimento dei processi decisionali.
Il primo punto fondamentale a cui l’atto fa riferimento è che per tenere il passo di paesi concorrenti come Stati Uniti e Cina sarebbe necessario stanziare circa 750-800 miliardi di euro l’anno; ciò significherebbe un aumento della quota di investimento uguale al 5% del PIL, passando dal 22 al 27%. Altro fattore determinante è il tempo: “quello che non possiamo permetterci di fare è rimanere fermi”, si legge. La Cina viene più volta citata, principalmente come minaccia per il mercato europeo nell’industria automobilistica (anche per il forte contributo statale) e nel settore dell’alta tecnologia, dove l’Europa sconta l’incapacità di mettere con successo sul mercato le idee innovative; dato confermato dalla tendenza che vede dal 2008 ad oggi, il 30% delle start-up private europee con valore superiore al miliardo, lasciare l’Europa. L’UE dovrebbe inoltre continuare a ridurre la sua dipendenza economica da alcuni fornitori per aumentare sicurezza interna e competitività: emblematico in questo senso il settore delle materie prime critiche e dei semiconduttori, dove si stima che il 75-90% della capacità produttiva mondiale provenga dall’Asia.
Ma più che l’attenzione sui singoli temi, la vera impronta del rapporto è nell’analisi di quanto necessario per attuare le misure prescritte. In questo senso, il documento sottolinea come sia vitale una cooperazione europea ai massimi livelli, con conseguente cessione della sovranità nazionale, in settori quali ad esempio la difesa o la politica industriale al fine di creare un polo europeo in grado di contrapporsi con efficacia alle due superpotenze Cina e Stati Uniti. E’ questo un approccio replicabile anche dal punto di vista finanziario: l’unico modo per sostenere l’ingente costo di queste politiche è infatti creare nuovi strumenti di debito comune europeo, sul modello del Next Generation EU, oltre ovviamente ad un sostanzioso apporto di investimenti privati; da questo punto di vista, però, il modello del piano post-pandemico è stato più volte inteso come strumento una tantum, giustificato dall’eccezionalità della situazione e sono già arrivati dagli Stati membri i primi commenti scettici sul punto.
Naturale presupposto di quanto detto è uno snellimento delle procedure decisionali dell’Unione, attualmente caratterizzate da troppe possibilità di veto ed una lunghezza eccessiva delle fasi dell’iter legis. “L’Unione non si coordina laddove è importante, [e] le regole decisionali europee non si sono sostanzialmente evolute con l’allargamento dell’Ue e con l’aumento dell’ostilità e della complessità dell’ambiente globale che dobbiamo affrontare“, ha affermato Draghi. Un assunto ben sottolineato dal tempo medio di approvazione degli atti: 19 mesi, e che tuttavia si accompagna ad una certa ipertrofia normativa (13mila atti approvati dal 2019).
Risulta quindi evidente come il documento tocchi i punti nodali dell’Unione stessa, dal riparto di sovranità alla condivisione del debito, e come sia proprio la delicatezza e l’importanza di questi temi ad ostacolarne probabilmente l’implementazione.