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Il presente e il futuro (auspicabile) del dibattito sul repowering eolico
di Carlo De Nicola
Pochi, alti, efficienti. Questo è l’indirizzo impresso dal progresso tecnologico agli impianti eolici, i progetti di ammodernamento (di repowering) dei quali stanno diventando sempre più frequenti a causa della naturale obsolescenza della capacità installata – ma anche della capacità non installata, poiché la lunghezza degli iter autorizzativi spesso rende necessario presentare, conclusa una procedura, un’ulteriore istanza per varianti progettuali volte a rendere gli impianti al passo con i tempi.
Se da una parte l’importanza strategica del repowering della capacità eolica è stata riconosciuta dal Governo – si cita, ad esempio, il DL Semplificazioni-bis, il cui articolo 32 prevede la PAS per interventi di repowering non sostanziali – e dalla Commissione Europea – si cita, in tal senso, il rapporto di ottobre 2021 sulla competitività delle tecnologie per l’energia pulita – dall’altra non si può dire che tale attività sia esente da critiche o attacchi. Ma andiamo con ordine.
Quali sono i vantaggi delle attività di repowering eolico per la società? Si potrebbero riassumere in una frase: produrre una maggiore quantità di energia con meno aerogeneratori. E, in ultima analisi, in meno spazio. Proprio l’elevato consumo di suolo è uno degli ostacoli più significativi allo sviluppo delle FER: nell’era della transizione ecologica sia eolico che fotovoltaico sono al centro di una vexata quaestio su come limitarne l’impatto ad esempio sulle attività agricole, poiché ad entrambi i settori sono necessari areali significativi.
Le soluzioni di policy per contrastare il consumo di suolo sono state negli anni molteplici. Quella che per ora gode della maggiore attenzione da parte del legislatore nazionale è l’individuazione di aree idonee e non idonee. Soluzione che però presenta, tra i propri limiti, un lunghissimo iter di implementazione: se è vero, come disse Seneca, che “non abbiamo poco tempo ma ne perdiamo molto”, attendere l’individuazione di tali aree con l’urgenza di raggiungere i target di decarbonizzazione al 2030 potrebbe essere quasi considerato un investimento rischioso, se si ha interesse a perseguire la transizione ecologica. Basti pensare che le aree non idonee fanno parte dell’ordinamento italiano da più di 20 anni, e ancora non tutte le Regioni hanno provveduto alla mappatura puntuale di cui nel DM 10 settembre 2010.
Il repowering della capacità esistente, pertanto, può costituire una soluzione tecnologica ad un problema per cui la soluzione politica potrebbe farsi attendere ancora a lungo.
Ma, come si diceva poco sopra, anche questa attività non è esente da critiche o attacchi. In questi casi, essenzialmente due sono i punti su cui vertono i movimenti di opposizione. Il primo: si coglie l’occasione per rimettere in discussione un progetto che esiste già, riproponendo, rinnovata, la polemica Nimby che spesso caratterizza l’insediamento di impianti e infrastrutture sui territori. Il secondo: si contesta il maggiore impatto paesaggistico dei più alti aerogeneratori che, seppure occupanti meno spazio, possono risultare maggiormente visibili.
Se del primo punto molto si è detto e scritto, il secondo punto merita un approfondimento particolare, perché mette in discussione direttamente la fattibilità di tali progetti. La giurisprudenza amministrativa che inizia ad accumularsi a tale riguardo evidenzia per il momento proprio l’aspetto critico del maggiore impatto “visivo”, non sempre controbilanciato dalla riduzione dell’impatto “spaziale”. Tuttavia il rischio è che tale posizione, se assorbita in modo costante e indiscriminato, comprometta il futuro sviluppo delle rinnovabili, “incatenando” il settore a tecnologie superate ed estendendo a dismisura, ben oltre le intenzioni originarie del legislatore, le aree da considerare di fatto non idonee per motivi paesaggistici.Pertanto, occorre bilanciare questa specifica accezione di tutela del paesaggio con tre principi non meno importanti: 1) il principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, sancito in sede europea e ribadito più volte dalla Corte Costituzionale; 2) il ruolo centrale, seppur indiretto, delle rinnovabili nella tutela del paesaggio, stanti i cambiamenti climatici che minacciano la sopravvivenza di innumerevoli ecosistemi a livello globale; 3) i margini di flessibilità che la definizione stessa di bene paesaggistico di cui all’articolo 2 del Testo Unico dei Beni culturali e del Paesaggio consente di applicare. Poiché, infatti, i beni paesaggistici sono definiti come gli immobili e le aree “costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio”, occorre iniziare a far passare il messaggio che le rinnovabili sono certo attività economiche, ma sono anche espressive di una nuova cultura della sostenibilità che oggi si trova al centro di innumerevoli scelte politiche, economiche ed etiche. Non diversamente da come, mutatis mutandis, una masseria storica ci ricorda la tradizione agro-pastorale di un territorio, o le rovine costiere di un bastione richiamano la necessità, secoli or sono, di realizzare tali opere – “paesaggisticamente impattanti” – per scongiurare le scorribande dei pirati saraceni. Il rapporto tra uomo e ambiente si sostanzia, oggi, nella transizione ecologica ed energetica: un principio, apparentemente ovvio ma a quanto pare non ancora sufficientemente compreso, che deve innescare un urgente cambiamento culturale nella percezione degli impianti rinnovabili. L’attuale dibattito sul repowering è un’occasione per affrontare seriamente questo tema.