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I sussidi ambientalmente dannosi valgono quanto una finanziaria
di Umberto Garini, Public Affairs Advisors
È stato recentemente pubblicato il Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e favorevoli riferito al 2017; un’opera redatta annualmente dalla Direzione per lo sviluppo sostenibile, per il danno ambientale e per i rapporti con l’Unione europea e gli organismi internazionali (SVI) del Ministero dell’Ambiente con la collaborazione di MEF e MiSE. I numeri sono interessanti: 19,3 miliardi di euro di sussidi ambientalmente dannosi (SAD), 15,2 miliardi di sussidi ambientalmente favorevoli (SAF) e 6 miliardi che hanno una classificazione incerta.
Nel Catalogo sono di fatto presentate le modalità di spesa dei fondi dello Stato (le spese dirette), ma anche le spese indirette o fiscali, tra le quali rientrano agevolazioni, esenzioni o riduzioni, che favoriscono a vario titolo le attività economiche sul territorio, al fine di identificarne gli effetti in senso favorevole o dannoso per l’ambiente.
I sussidi, come si evince dal nome, sono infatti stati catalogati in base al loro impatto sull’ambiente: quelli dannosi hanno direttamente o indirettamente delle ricadute negative, mentre quelli favorevoli contribuiscono allo sviluppo sostenibile. I sussidi cosiddetti incerti sono quelli che non presentano impatti rilevanti ma che possono divenire favorevoli con l’introduzione di alcune condizionalità ambientali mirate.
Se sui SAF la discussione si limita a considerare una loro ristrutturazione o eliminazione dal punto di vista economico, i SAD richiedono invece un ragionamento più complesso visto l’impatto negativo sull’ambiente.
I SAD sono generalmente stati introdotti per motivi economici e rendere più competitivi settori che altrimenti non avrebbero potuto sostenere la concorrenza per gli eccessivi costi o normative. Oggi, alla luce dell’evoluzione tecnologica dei processi e del mutato quadro normativo e delle necessità di tutela ambientale, molti di questi non hanno più motivo di essere elargiti.
Questo quadro aprirà inevitabilmente una discussione nella politica italiana, dando occasione al Governo di avviare, d’intesa con le altre amministrazioni e con i portatori d’interesse, processi virtuosi sotto il profilo delle politiche ambientali, con l’obiettivo primario di ridurre e progressivamente eliminare tutti quei sussidi ambientalmente dannosi, dirottando così il Paese verso uno sviluppo e un’economia sostenibili.
Dal Catalogo emerge che i settori più influenti in termini economici e conseguentemente ambientali, sono il settore agricolo e zootecnico e il settore energetico. I SAD riferiti ai combustibili fossili sono pari a 16,8 miliardi di euro, quasi la totalità.
Un dato, questo, che non può passare inosservato. Ricordiamoci infatti il forte dibattito sulla Finanziaria per reperire le risorse (circa 10 miliardi di euro) per far partire il Reddito di Cittadinanza e istituire “Quota 100” sull’età pensionabile.
Il numero è rilevante alla luce della recente presentazione del Piano Integrato per l’Energia e il Clima. Anzi, il Catalogo deve essere usato come uno strumento imprescindibile per la programmazione delle azioni necessarie agli obiettivi proposti nel PNIEC.
Bisogna sottolineare che l’abolizione dei SAD non è sempre un’operazione semplice, né dal punto di vista industriale e politico, né da quello normativo. Esistono infatti diversi livelli di riformabilità del sussidio: se di competenza nazionale, può essere gestito dal Governo, ma nel caso in cui si parli di sussidio europeo, la decisione di abolire o modificare un sussidio è ovviamente rimessa agli organi dell’Unione.
La questione non riguarda esclusivamente il nostro Paese: i sussidi sono presenti in tutti gli Stati del mondo. A ottobre 2018 si è tenuta a Roma la peer review tra i paesi del G20, analizzando il Catalogo del 2016. Si stanno infatti cercando strategie comuni tra i paesi più industrializzati per eliminare i SAD, senza troppi shock per l’economia. Da qualche anno, a turno, due Paesi del G20, presentano i propri sussidi al G20 e gli altri paesi e istituzioni aiutano i due proponenti a identificare misure per il loro graduale abbandono. Alla base di questo processo c’è la questione dell’improbabilità che un paese vorrà essere il primo ad abbandonare dei sussidi penalizzando l’economia in uno scenario globale già di per sé delicato, mentre, si sa, “l’unione fa la forza” (o forse piuttosto “mal comune mezzo gaudio”).
È chiaro a tutti che comunque da qualche parte bisogna partire.