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Burden Sharing: non chiamiamolo (solo) aggiornamento
di Carlo De Nicola
Un passaggio cruciale nel processo di implementazione dei nuovi target europei di installazione di rinnovabili sarà la revisione della ripartizione degli obiettivi di installazione di nuova capacità rinnovabile tra le regioni italiane (comunemente chiamato, sia pure poco felicemente, burden sharing).
Tuttavia, occorre ribadire una tesi essenziale: non ci serve un aggiornamento, ma un ripensamento integrale del burden sharing – a partire, ovviamente, dal concetto di burden. Lungi dall’essere un mero esercizio di nominalismo, questo processo di revisione della cultura normativa che preesiste, e indirizza, la produzione legislativa e regolatoria può rimuovere alcune delle più importanti barriere che rallentano la transizione ecologica.
Prendiamo, ad esempio, il comma 6 dell’articolo 3 del DM Burden Sharing, che consente alle Regioni di individuare limiti alla produzione di energia per singola fonte purché pari almeno al 150% di quanto previsto nella propria programmazione regionale. Non è difficile risalire alla ratio alla base di tale disposizione: consentire il raggiungimento degli obiettivi di installazione delle FER e contestualmente dare la possibilità di bloccare l’ulteriore sviluppo degli impianti una volta raggiunto tale risultato. Chi, con gli occhi e la sensibilità di oggi, legge tale disposizione, dovrebbe altrettanto facilmente coglierne i limiti.
Anzitutto, nel giro di alcuni gli obiettivi fissati nel “lontano 2012” sono diventati non più sufficienti, mentre siffatta norma è rimasta e continua ad avere la possibilità di bloccare lo sviluppo di nuova capacità indipendentemente dai nuovi obiettivi via via fissati a livello nazionale – essa, infatti, mantiene come benchmark il target fissato nell’ambito della programmazione regionale. Un approccio che, come dimostra il fitto susseguirsi di moratorie e stop alle autorizzazioni (puntualmente impugnati e invalidati) degli ultimi anni, non sembra in grado di portare risultati particolarmente positivi.
In secondo luogo: possiamo, con le tecnologie attuali, considerare la capacità rinnovabile installata un indicatore affidabile della “saturazione” dei territori? Gli interventi di repowering degli impianti esistenti consentono un incremento significativo della capacità nominale e della produzione di energia, senza con ciò consumare altro suolo – anzi, avviene piuttosto il contrario. Sarebbe paradossale che interventi in grado di diminuire l’impatto territoriale complessivo degli impianti fossero considerati non in linea con la programmazione regionale perché tali da superare la capacità massima installabile: eppure, apparentemente, ciò è possibile.
Nell’intensa attività di innovazione normativa che caratterizzerà i prossimi anni non dovrà mancare anche l’attenzione a questo tipo di particolari, affinché il Paese si doti di strumenti adatti alle necessità dell’era della transizione ecologica.