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I “comitatini” adesso fanno paura
La disinvolta retromarcia sullo Sblocca Italia
A poco più di un anno dalla conversione, peraltro avvenuta con apposizione della questione di fiducia, il decreto-legge n.133 del 12 settembre 2014 detto ‘’Sblocca Italia”, perde una delle sue parti più qualificanti, e più contornata di numeri, lo “Sblocca Energia”. Un insieme di misure volte a sviluppare le risorse geotermiche, petrolifere e di gas naturale grazie ad investimenti privati nazionali e internazionali per oltre 17 miliardi, con un effetto sull’occupazione di 100 mila unità e un risparmio in bolletta energetica per 200 miliardi in 20 anni. Queste le roboanti ed estive intenzioni del Governo: il decreto, infatti, fu concepito nel consiglio del 29 agosto ma, benché urgente arrivò in Gazzetta Ufficiale dopo più di dieci giorni.
Lasciamo perdere le pur sacrosante critiche sull’abuso della decretazione di urgenza e del (quasi conseguente) abuso della questione di fiducia e facciamo un ulteriore passo indietro a una domenica del 13 luglio sempre 2014 e precisamente a un’intervista di ampio respiro a Matteo Renzi, comparsa sul Corriere della Sera, titolata “La mia agenda dei mille giorni”, dove venivano riportate le quasi celebri parole: “Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini” .
Su queste colonne subito bollammo come quanto mai infelice e semplicistica l’uscita del presidente Renzi, poiché, oltre a risultare vagamente offensive, dichiarazioni del genere complicano e allontanano l’obiettivo del riconoscimento delle attività minerarie nel sistema economico territoriale: affinché chi opera in questo settore non sia considerato un alieno, ma un concittadino che può apportare benefici alla comunità che l’accoglie e alle altre attività economiche presenti nel territorio; comprese quelle dell’agricoltura, della pesca e del turismo come pure aveva argomentato un egregio e contemporaneo studio del Rie.
Oggi, però, quegli stessi “comitatini”, che in realtà si sono rivelati essere oltre 200 associazioni, fanno paura. Anche perché si sono dimostrati così attivi e radicati sul territorio da spingere 10 Consigli regionali (il doppio di quelli previsti dalla Costituzione) a proporre ben sei quesiti referendari. Sui quali c’è pure già stato il controllo dell’Ufficio Centrale per il Referendum istituito presso la Corte di Cassazione e sui quali il prossimo 13 gennaio si svolgerà il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale. Così tanta paura da far scattare un’improvvisa retromarcia con un’idea a dir poco geniale: emendare una legge di Stabilità, che già promette regalie e incomprensibilità da record, così da annullare i quesiti referendari. Come dire: abbiamo scherzato ci spiace se qualcuno – per esempio gli osannati investitori, per giunta stranieri o questi esagitati di ambientalisti – ci ha preso sul serio.
Se l’arrocco antireferendario riuscirà o meno alla fine saranno i giudici della Consulta e nuovamente i sei esperti giudici della Cassazione a stabilirlo. Per ora rileviamo che secondo il professor Enzo Di Salvatore, che ha svolto un’analisi per il Coordinamento nazionale No Triv, gli emendamenti governativi soddisfarebbero solo tre dei sei quesiti.
Rinunciamo quindi, almeno per ora, ad affrontare una lettura comparata dei testi (abolizione del “piano delle aree”, peraltro utile strumento di razionalizzazione, o previsione di salvataggio dei titoli abilitativi già rilasciati) per svolgere alcune brevi considerazioni sul metodo disinvoltamente adottato.
Un modus operandi che, come ricorderà più di qualche lettore, ricorda quello non proprio efficace del governo Berlusconi IV alle prese con il referendum sul nucleare dopo il disastro giapponese di Fukushima.
Allora il colpo tentato sul nucleare si rivelò un grosso, fragoroso buco nell’acqua (altra materia referendaria) questo perché le nuove norme non ricalcavano pedissequamente il quesito referendario, cosa che appunto parrebbe ripetersi anche questa volta.
Il passato dunque, per quanto recente, non sembra essere stato di grande insegnamento.
È tuttavia il presente che presta il fianco a profonde critiche. Inutile dilungarsi sul danno reputazionale, già ampliamente sottovalutato in occasione del taglio retroattivo agli incentivi al fotovoltaico, o sulla ormai spasmodica ricerca di continuo consenso, forse attribuibile al peccato originale che marchia il governo Renzi. Più sconfortante appare l’incapacità politica che ci viene esemplarmente fornita in questa occasione. L’attività estrattiva è certamente materia tanto importante quanto delicata che proprio non si presta a facili semplificazioni; tuttavia, a certi livelli, dovrebbe essere chiaro – basilare – che la politica è anche, se non soprattutto, mediazione e contemperamento di interessi diversi o contrapposti. Non riuscire a fare sintesi di posizioni antitetiche per raggiungere vantaggi collettivi, auspicabilmente di non breve periodo, è una grave mancanza. Ben superiore al divario tra gli annunci e i fatti.
Una postilla: sarebbe auspicabile che s’interrompa questa inutile e insulsa deriva comunicativa di affibbiare evocative denominazione ai testi di legge. Non porta affatto fortuna: è stata, infatti, inaugurata da Berlusconi, abusata da Monti (Salva Italia, Cresci-Italia, Semplifica Italia) e, nonostante il pregresso, ora viene sublimata da Renzi; solo che noi elettori saremo pure dei fessacchiotti, spesso ignoranti e distratti, ma fino a un certo punto però.
Questo articolo di Lorenzo Parola e Antonio Sileo è stato pubblicato su Staffetta Quotidiana