Governo, Idrocarburi, In Primo Piano, Post in evidenza, Rinnovabili, Ritratti
Ministero e transizione. La questione è tutta qui
di Mattia Fadda
Una cosa è certa: quello della transizione non sarà un super ministero. Non per la caratura del ministro (dal curriculum super) quanto per le competenze che dovrebbero essergli assegnate. Non è ancora chiaro infatti quali fra quelle oggi al MiSE confluiranno al ministero dell’ambiente (i mercati retail dell’energia?) oggi ribattezzato, quando e come arriveranno. Probabilmente grazie ad un decreto-legge per istituzione/denominazione del nuovo Ministero e il trasferimento ad esso di funzioni e materie; poi un DPCM per dettagliare riorganizzazione funzioni delle DG e, infine, un decreto ministeriale per organizzazione gli uffici dirigenziali di livello non generale. Sarà inoltre istituito il Comitato interministeriale per la transizione ecologica, presieduto sempre da Roberto Cingolani.
In ogni caso, chi si occupa di energia sa quanto sarebbe utile un unico luogo di pianificazione, interlocuzione e decisione sulle politiche energetiche. È pur vero che qualunque comparto industriale fra quelli più strategici e peculiari potrebbe rivendicare un medesimo trattamento. Penso ad esempio alle telecomunicazioni divise fra MiSE e Presidenza del Consiglio dei Ministri (Agid, Dipartimento per la trasformazione digitale e dunque Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale guidato da Vittorio Colao).
In ogni caso, la questione è un’altra. Senza evocare quello bianco o nero di Deng Xiao Ping passiamo direttamente a citare il gatto verde. Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, il 10 febbraio scorso (prima che si conoscesse il nome del neo Ministro per la transizione) alla trasmissione Agorà aveva infatti fatto notare che “(…) bisogna discutere se intendiamo questo ministero come un ministero che blocca l’impresa o che l’aiuta“. Credo che, a ben vedere, la questione sia tutta qui: piccolo o grande, verde o verdino, il ministero della transizione ecologica aiuterà o bloccherà le imprese? Promuoverà o ostacolerà gli investimenti? Accelererà le procedure, autorizzerà finalmente i progetti che, superato il vaglio ambientale, attendono solo la firma?
Due giorni dopo, sempre prima che si conoscesse il nome di Roberto Cingolani, sul Sole 24 ORE campeggiava il bel pezzo di Giorgio Santilli “Burocrazia Verde. Autorizzazioni e decreti in forte ritardo, così l’Ambiente (il Ministero, ndr) rallenta grandi opere e attività industriali”. “Burocrazia verde” rischia però di non rendere intellegibile la questione a chi non abbia a che fare quotidianamente con i ministeri. C’è sicuramente un problema di “inerzia burocratica” in via Cristoforo Colombo e via Veneto (anche se meno che altrove e comunque meno di un tempo), ma il problema, fino ad oggi, è stato piuttosto di inerzia politica figlia della scarsa cultura di governo e dell’incapacità di coniugare le necessità industriali ed economiche del Paese (che l’impresa ogni giorno ti rappresenta), con le sfide ambientali e il fragile armamentario ideologico dei vertici politici uscenti di MiSE e MATTM.
Quindi, non tanto i ritardi delle norme e i decreti che il Paese attende (e noi con lui), quanto l’incapacità politica di rappresentare al proprio elettorato verità scomode.
Un atto catartico non è mai arrivato: “fermi tutti, quanto ci siamo detti sulla transizione energetica è falso o solo parzialmente vero. Serve altro”. Ci sarebbe voluto molto più coraggio di quello evidentemente disponibile ai ministri uscenti per rappresentare agli elettori e a molti parlamentari che, ad esempio, non si può ancora fare a meno del gas naturale, dunque dei metanodotti e (addirittura) degli idrocarburi nazionali; o che non si possano promuovere dal centro rinnovabili e obiettivi ambientali di decarbonizzazione tanto sfidanti e, al tempo stesso, assecondare le più bizzarre resistenze dei territori (soprintendenze…) alla realizzazione degli impianti eolici e fotovoltaici. Sarebbe stato forse utile un coming out: “dalla visuale privilegiata del ministero, grazie alle competenze dei tecnici, all’interlocuzione con le aziende e al confronto con i nostri omologhi nel mondo, ci siamo accorti che tutto quello che abbiamo propagandato non è scientificamente fondato e non fa gli interessi della Nazione”.
Colpisce dunque la chiarezza è l’onesta intellettuale del neo ministro della Transizione, Roberto Cingolani, che in un’intervista rilasciata ormai un anno fa al magazine di Eni WE, fra le possibilità tecnologiche innovative e sostenibili, non ha escluso ideologicamente nessuna delle opzioni in campo soppesandone rischi e opportunità:
“Abbiamo l’idroelettrico che è bellissimo, però non basta per tutti; il carbone e simili sono molto inquinanti; sul nucleare abbiamo visto che ci sono diversi veti di varia natura; l’eolico ha limiti di ingombro, ha problemi se c’è vento o no, non si può mettere ovunque e, come il fotovoltaico, non è immune da impatto ambientale (a lungo andare si riempirebbe il pianeta di silicio e metallo). In questo momento il gas è uno dei mali minori: nel medio e lungo termine la risorsa più sostenibile, ma crea problemi per le infrastrutture e anche le tecnologie di trivellazione sono oggetto di molte discussioni. Se vogliamo continuare a crescere in un certo modo dobbiamo trovare soluzioni tecnologiche, ma anche sociali che ci consentano di avere più forme di energia integrate. Le rinnovabili sono le energie meno impattanti ma bisogna fare investimenti e non risolvono tutti i problemi, soprattutto non sono utilizzabili in maniera continua come vogliamo e dove vogliamo”.
Per procedere lungo la transizione energetica (caposaldo di quella ecologica) servirà dunque un mix di investimenti pubblici – possibili grazie a Next Generation EU – e investimenti privati che necessitano però di essere sbloccati dalle strutture che oggi Cingolani ha il potere di orientare.